RAYAN ADAMS genio e sregolatezza recensione concerto live Milano

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Voto: đź‘Źđź‘Ź

Era un concerto molto atteso quello di RYAN ADAMS, che tornava in Italia dopo anni di assenza. L’occasione la regala la celebrazione dei 25 anni dall’uscita di “Heartbreaker”, l’album d’esordio da solista dell’eclettico cantautore americano. Celebrazione che Ryan (quello senza la “B”) decide di fare in estrema solitudine, riproponendo l’intero album in un contesto “solo”, accompagnato dalla chitarra, per lo più acustica, o un pianoforte.

Il concerto (che inizia alle 20.00 e si preannuncia come una maratona di oltre 3 ore – con un lungo intervallo) è un’esperienza unica che può generare una doppia sensazione: o di frustrazione, rabbia, difficile comprensione in generale, oppure annoverare Adams tra i geni assoluti dello spettacolo. Difficile dare un giudizio obbiettivo, occorre barcamenarsi tra questi due aspetti e accettare entrambe le realtà e poi fare affidamento sul proprio gusto o sensibilità.

Sul palco del teatro milanese (che è in realtà un’enorme pedana essendo a livello suolo e non elevato) c’è spazio per una sedia circondata da chitarre acustiche, un basso tavolino, un piano verticale a sx della sedia e un’altra postazione microfonica in piedi con qualche chitarra elettrica. In secondo piano un ulteriore sedia con tavolino. Il tutto condito con nove punti luce a terra tra piantane e abat jour.

Quando Ryan Adams sale sul palco è un vero tripudio: gente in piedi che batte le mani e grida il suo nome con il protagonista platealmente ben disposto a tale accoglienza. A vederlo nel suo look il cantautore pare un tipico impiegato americano nerd uscito dagli anni ’50/’60, con un vestito color nocciola, con tanto di gilet e un papillon.

Il concerto iniziai e subito ti fai cullare dalle dolci, dolcissime note del primo brano. Ma basta poco perché subito dopo inizia lo show nello show e parte una “discussione” con uno spettatore in prima fila, troppo “attaccato” al telefonino. Spiegazioni, risate, scambi di battute ed alla fine del brano i due si fanno un selfi insieme sul palco (facilmente raggiungibile dalla platea).

Riparte la musica ma poco dopo un’altra interruzione con una spettatrice che espone un cartello e si lamenta del fatto che suo marito ascolta più le sue canzoni che lei. Anche qui siparietto tra i due che si conclude con Ryan che al piano improvvisa una canzone per la coppia (entrambi presenti in sala). E ancora, sempre nel primo tempo, un’armonica fuori palco interrompe una canzone e parte un ennesimo soliloquio, una sorta di flusso di coscienza, spesso parlato lontano dal microfono. C’è spazio anche per un altro spettatore sul palco che duetta con il protagonista, mentre per due volte il protagonista suona e canta tra il pubblico senza microfono (lo abbiamo già visto fare tante volte).

E poi un inquietante rodie che ad ogni canzone si presenta per prendere la chitarra appena usata e restituisce la precedente, rabbocca la tazza sul tavolino, toglie l’orologio a Ryan e glielo rimette poco dopo, una specie di “servitore di scena muto” che ringrazia con un gesto della mano quando Adams lo presenta.

Ecco, di questo concerto colpiscono più questi episodi che (purtroppo) la bellezza della musica.

È tutto frammentato, enormemente e inutilmente dilatato. Quella magica tensione emotiva che crea la musica si ferma troppe volte, si disperde inutilmente, non c’è modo di restare nel flusso musical/emotivo. Ma è la struttura stessa, la formula acustica a richiedere di immergersi e di lasciarsi trasportare. Sembra quasi che Ryan Adams non voglia che questo succeda, è lui stesso in alcune occasioni a bloccarsi e a mettere le sue a volte veramente incomprensibili parole ed idee davanti alle note.

Peccato avrebbe potuto regalare grosse emozioni che invece sono arrivate centellinate, a sprazzi, passando anche per brani di Dylan.

Di contro il geniale sta in questa sacrilega rottura dello schematico concetto del concerto, che passa attraverso un dissacrante, ma reale, tangibile e immediato rapporto con il pubblico.

Alla fine si esce dal tour de force o ammaliati o estremamente perplessi domandandosi se non fosse stato lecito avere qualcosa di più “tradizionale”

Scaletta

To Be Young (Is to Be Sad, Is to Be High)
My Winding Wheel
Amy
Oh My Sweet Carolina
Bartering Lines
Call Me on Your Way Back Home
To Be the One
Why Do They Leave?
Improv Song “Dennis and Senia”
Shakedown on 9th Street
Don’t Ask for the Water
Damn, Sam (I Love a Woman That Rains)
In My Time of Need
Sweet Lil’ Gal (23rd/1st)

Set 2:
Ashes & Fire
Two
Dear Chicago
Lovesick Blues (Elsie Clark cover) (Durante la canzone Ryan si muove tra il pubblico senza microfoni per la voce e la chitarra.)
I’m So Lonesome I Could Cry
(Hank Williams With His Drifting Cowboys cover) (Suonato interamente tra il pubblico senza microfoni)
Everybody Knows
Gimme Something Good
Improv Song “Lucky Now” (La canzone è stata realizzata per scherzare con un ragazzo che chiedeva “Lucky Now”.)
Lucky Now (Suonata e cantata da un ragazzo presente in prima fila con Ryan al coro)
To Be Without You
Idiot Wind (Bob Dylan cover)
New York, New York
When the Stars Go Blue
Come Pick Me Up

https://www.facebook.com/ryanadams


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